GOT BEEF?
L’arte del dissing
La nobile arte dell’insulto, ancora prima del pamphlet del professore cinese Liang Shiqiu – il quale, invero, ne caldeggiava un uso quantomeno sottile per ovvie esigenze politiche – è stata efficacemente analizzata ed esplicitata da un caposaldo del pensiero occidentale come Arthur Schopenhauer, che nel suo L’arte di farsi rispettare ci suggerisce di non far prigionieri qualora prendessimo parte a un alterco verbale:
“La villania è una qualità che, nelle questioni d’onore, supera e soppianta ogni altra […] una villania prevale e ha la meglio su ogni argomento, e a meno che il nostro avversario non replichi con una villania ancora maggiore… siamo noi i vincitori, l’onore è dalla nostra parte, e la verità, la conoscenza, lo spirito e l’ingegno debbono fare fagotto, una volta sconfitti e messi in scacco dalla divina villania”.
Un secolo dopo, il ricorso al dileggio indiscriminato quale strumento principe di risoluzione delle rivalità ha trovato nell’hip hop la sua definitiva legittimazione universale: le diatribe dei writers, fra pezzi crossati (rovinati per sfregio) e muri contesi; le battle infinite sul linoleum a vedere contrapposte le crew di breakdance; le sfide tra DJs e soundsystem nei block party e l’ascesa del ruolo degli MC’s, che da iniziali membri di supporto hanno finito per catalizzare l’interesse generale, trasformandosi in breve tempo nell’ingrediente principale del nascente show business. Parafrasando la celebre massima del generale von Clausewitz, l’hip hop ha rappresentato, e tuttora rappresenta, la continuazione della guerra fra gang con altri mezzi.
Intendiamoci, l’antagonismo tra musicisti e la conseguente polarizzazione delle rispettive fanbase non è affatto prerogativa del mondo del rap, ma è senza dubbio quest’ultimo ad averne radicalmente interiorizzato le dinamiche al punto da renderlo parte integrante della propria estetica, non foss’altro per la proverbiale spocchia che caratterizza per definizione la figura del rapper. Il punto sostanziale sta nel fatto che mentre i fratelli Gallagher insultano sistematicamente i colleghi attraverso interviste ed esternazioni, mantenendo però la propria produzione artistica scevra di contenuti bellicosi, Kendrick Lamar nel suo featuring in “Control” di Big Sean arriva a sputare senza mezzi termini “Vi voglio bene, ma devo farvi fuori tutti”, lanciandosi a testa bassa in un name dropping a cascata che non risparmia nemmeno il povero Big Sean che pure lo aveva invitato a partecipare al brano, fino ad autoproclamarsi “King of New York” – lui, nato a Compton, contea di Los Angeles. Non vorrei esagerare, ma nemmeno 2Pac, durante le tristemente note faide tra rappers della East e della West Coast, si era spinto tanto oltre: gli intenti di Kendrick sono da contestualizzarsi all’interno di una sana competizione, certo, ma sapete cosa? K-Dot è uno dei migliori talenti della nuova scuola, e non so quanti possano permettersi di far scattare un beef con lui senza uscirne con le ossa rotte.
Perché è importante tenere ben presente che dalla gestione di una rivalità può dipendere una buona fetta della credibilità di un artista, insieme alle sue prospettive di carriera. Per esempio, chi si ricorda di Benzino? Rapper e responsabile della nota rivista The Source, all’inizio del millennio ebbe la malsana idea di mettersi contro Marshall Mathers III, al secolo Eminem, provocandone la reazione con un paio di diss track al vetriolo, e finendo così per screditare sia se stesso – avrebbe potuto mirare un po’ più in basso, in effetti – sia la rivista, che subì un drastico calo delle vendite a causa del boicottaggio da parte del nutrito stuolo di supporter di Slim Shady. In altri casi, invece, gli attriti e i dissing hanno contribuito a mantenere alti l’hype e l’attenzione sulla produzione degli artisti, vedi alla voce “Jay-Z vs Nas”: tracce come “Takeover” del primo ed “Ether” del secondo, a prescindere dal giudizio sull’esito finale dello scontro, sono servite a entrambi per incidere con ulteriore forza il proprio nome nel gotha dei migliori rapper di tutti i tempi.
L’hip hop nostrano, dal canto suo, non difetta di frecciate, doppi sensi facilmente interpretabili e attacchi frontali compresi di nomi, cognomi e codici fiscali degli interessati. Durante la seconda metà dei ‘90 potevamo sommariamente suddividere i b-boys in quelli che ascoltavano senza problemi il rap più mainstream (Articolo 31, Sottotono e Area Cronica) e quelli che si ergevano a paladini dell’hip hop hardcore e impegnato, sostenendo la causa di artisti come Neffa, Kaos, il Colle e Dj Gruff. E fu così che nel 1998 proprio quest’ultimo, dopo una sequela di non troppo velate allusioni sparse nei dischi precedenti, decise di attraversare il Rubicone, regalando a noi tutti haters impenitenti del rap commerciale “1 vs 2”, pura soda caustica su un beat di Fritz da Cat, mettendo in mezzo gli Articolo 31 senza troppi complimenti, i quali risposero semplicemente tramite il flow dei loro avvocati. La successiva ristampa del disco di Fritz vide così la sostituzione del brano incriminato con l’ancor più iconica “Sucker per sempre”, a opera sempre di Dj Gruff, ma priva di riferimenti diretti.
Qualche anno dopo, gran parte del merito della rinnovata diffusione del rap in Italia sarà da ascriversi al veicolo per eccellenza del dissing e delle rime a effetto contro l’avversario: il contest di freestyle. Eventi di caratura nazionale quali il Mortal Kombat del 2001 (rispolverate pure su Youtube la storica finale del non ancora famoso Fabri Fibra contro Kiffa), il 2 The Beat e il Tecniche Perfette, sulla scia del successo del film “8 Mile”, hanno costituito il trampolino di lancio per le carriere di un’intera generazione di MC’s: Ensi, Mondo Marcio, Emis Killa, Clementino e, sappiatelo, anche Fedez. O tempora o mores, lo stesso Fedez e tanti suoi colleghi della nuova e vecchia guardia hanno preferito negli ultimi tempi trasferire il ring delle proprie invettive dalle jam polverose alle stories su Instagram, continuando sì ad alimentare l’hype e i bassi istinti dei fan, ma con mezzi a buon mercato, a uso e consumo di un pubblico poco avvezzo alle sfide live, più interessato a sterili gossip e ai numeri sui social che alla street credibilità. Tutto è del resto da ricondurre alla deriva attuale che ha preso l’hip hop italiano, una rivoluzione copernicana che con i suoi nuovi stilemi e dinamiche ha lasciato spiazzati tanti aficionados della prima ora.
Jack Sparra