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di Marcella e Joveline

In occasione del concerto di stasera al Palazzo di Città per il festival Abbabula abbiamo incontrato Paolo Angeli, chitarrista e compositore d’avanguardia, molto conosciuto per la sua chitarra sarda preparata a 18 corde, unica al mondo, di cui Pat Metheny ha voluto una copia tutta sua!
Che è successo? Joveline alla regia underground più Marcella allo stalking telefonico uguale megaintervistona!

Il tuo album 22.22 Free Radiohead è stato un successo di pubblico e critica. È sicuramente un progetto molto diverso dai tuoi precedenti lavori e – come tu stesso hai dichiarato – la sua peculiarità è la scelta di interpretare i brani di una rock band molto famosa e molto amata. Ce ne vuoi parlare?

Di fatto, nella dimensione live rispetto ai progetti in studio, è un progetto che sono riuscito a far più mio essendo centrato tantissimo sull'improvvisazione: una lunga suite con pochissime pause tra le sezioni che in alcuni casi può essere un unico brano di un'ora. Questo mi permette di lavorare in maniera estremamente libera sul materiale, per cui diventa quasi una forma di scrittura tra diversi compositori, dove da un lato ci sono loro, i Radiohead, con la struttura della forma canzone scardinata e dall'altro ci sono io con la mia musicalità e con il mio percorso, col bagaglio della tradizione e dell'improvvisazione libera, col fascino per tutte le espressioni musicali del mediterraneo.
Un altro aspetto fondamentale è la tipologia del montaggio: è come se tu hai a che fare con un grande affresco... hai presente i quadri fiamminghi in cui hai miliardi di piccoli dettagli? Se ti soffermi puoi passare anche tutta una vita a vedere questo quadro, scoprendo che all'interno racchiude tanti elementi, tante cellule. Ecco, chi conosce veramente i Radiohead scopre queste cellule; chi non li conosce non trova questa frattura con il mio passato musicale perché comunque – ritornando alla pittura – il mio modo di dipingere musicalmente è quello: diciamo che i rischi iniziali di fare un lavoro diversissimo alla fine sono venuti meno, perché ho metabolizzato la loro musica per restituirla al pubblico alla mia maniera.    

 


La tua chitarra preparata è unica al mondo e si inserisce nel filone degli strumenti modificati, presenti non solo nella fusion ma anche nel rock alternativo, ci puoi raccontare la storia di questo strumento?

La prima chitarra preparata l’avevo comprata al Corso, a Sassari da Ferraris, era una vecchia chitarra da 250mila lire comprata nel marzo nel ‘93, che tra il ‘93 e il ‘96 avevo modificato con tutta questa aggiunta di martelletti, di eliche e di tante altre innovazioni, poi a partire dal 96 è diventata il mio marchio di fabbrica nel senso che è diventato il mio strumento da cui non mi sono mai più separato per fare un concerto dal vivo.
Nel 2001 c'è stato l'incontro con Pat Metheny che è rimasto talmente affascinato da questo strumento da volerne una copia tutta sua, quindi nel 2003 sono nate due chitarre gemelle. Un aneddoto divertente rispetto a questa vicenda è che io gli ho chiesto “ma anche tu vuoi una chitarra sarda comprata da Ferraris o costruiamo un discorso ex novo?”.
Dal 2003 ho continuato a modificarla perché la storia di questo strumento è profondamente legata ai miei viaggi, alla curiosità costante verso mondi musicali diversi, e continuo a modificarla anno dopo anno in base alle suggestioni. È un work in progress, uno specchio della mia esistenza musicale perché succede davvero così! Vedo un musicista suonare, mi innamoro di una sonorità e cerco di riprodurla modificando la mia chitarra. La storia del mio strumento è fatta di incontri casuali e di trasformazioni per rendere la chitarra una creatura viva, una scultura in evoluzione.



L’insularità è un tratto distintivo della tua produzione, ma quanto all'ispirazione non hai frontiere artistiche e fisiche: hai preso e regalato a tanti generi diversissimi tra loro come jazz, fusion, world, folk, musica afro e balcanica e ovviamente il rock. Come si è sviluppato il tuo personalissimo percorso?

Sicuramente attraverso l'elemento principale del mio carattere, che è la curiosità: ho mantenuto un atteggiamento con la musica molto vicino al suo significato in inglese o in francese, dove suonare è “giocare”. Ho sempre guardato alla musica con gli occhi di un bambino che quando si sorprende di qualcosa ci inizia a giocare, e una volta conosciuto e sperimentato il giocattolo lo butta via! Ecco, il mio atteggiamento è molto simile: finché non riesco a padroneggiare e controllare un genere, uno stile, non lo mollo! Nel momento in cui individuo i parametri che mi permettono di controllarlo ho bisogno di una nuova “sorpresa” che mi travolga. L'ultima in ordine di tempo è stata il flamenco a cui ho dedicato cinque anni di ascolti. Io vivo a Barcellona, andavo a sentire il flamenco anche 4-5 volte a settimana. Per quanto riguarda il discorso dell'insularità e lo studio della musica tradizionale sarda, beh, io dal '93 non ho mai smesso di studiarla, non ho mai saltato una Settimana Santa, vado a Castelsardo, Cuglieri, Santu Lussurgiu, ascolto questa musica viscerale, mi entra sotto pelle... ed è lì che subentra il discorso dell'insularità: studio cosa succede alla musica tradizionale sarda, apparentemente sempre uguale, ma che apporta costantemente delle micro variazioni. Se rispetto a culture a me lontane rimango a un rapporto di discernimento più superficiale, dove distinguo i macro elementi, con la musica sarda ho il gusto della virgola, del dettaglio, della sensazione di ciclicità, della ripetizione di un'esperienza. Il sardo nel suo rapporto con la musica apporta costantemente delle minuscole variazioni, cosa che contraddistingue un po' tutte le tradizioni popolari ma in Sardegna ancora di più, col fatto che viviamo in una società più chiusa e protettiva: succede nella musica liturgica, nel canto a tenore, nelle launeddas, nel canto a chitarra in Re logudorese e gallurese.


foto, Nanni Angeli


Sei in tour con 22.22 da gennaio, l’appuntamento di oggi con Abbabula apre ai grandi festival estivi, ci vuoi dare qualche anticipazione sui prossimi show?

Sì. Intanto questo mese si aprono i tour intercontinentali, che poi sono una grossa fetta dei miei concerti, ormai da tre anni essenzialmente suono fuori dall'Italia. Il 12 maggio presenterò l'album al Kennedy Center di Washington, una delle sale più importanti degli USA, subito dopo farò un tour di sei date in Argentina, fino a metà giugno. Poi Asia, Stati Uniti, Canada... saranno due anni molto intensi, il calendario si sta ancora definendo, comunque parliamo già di 20 date entro fine giugno! Di solito viaggio sui 60 concerti all'anno... più o meno toccherà tutto il pianeta questo tour! Sono curioso del pubblico alle diverse latitudini, perché le reazioni possono cambiare tantissimo.


Sei ideatore e direttore artistico del festival Isole che parlano (che si svolge a Palau ndr) che quest'anno compie la bellezza di 23 anni: vuoi parlarci della filosofia che sta alla base del festival?

Con Nanni Angeli seguo la direzione artistica di questo festival, nel corso degli anni da piccola creatura è diventato molto importante soprattutto perché pensiamo al festival come opportunità d’incontro fra tanti e diversi linguaggi musicali: dalla processione del canto a tenore lungo i sentieri della roccia dell'Orso, alla fusion tra la cumbia e il punk rock noise francese, a un assolo di free jazz all'interno di una tomba di giganti. La location ha la forza evocativa per legare diversi generi e soprattutto rende fruibile qualcosa che magari sul palco apparirebbe difficoltosa: così un pezzo di improvvisazione in una piccola caletta si lega al rumore della risacca del mare. Il festival, grazie al contesto naturalistico, rende facili dei generi complessi o comunque aiuta orecchie non educate ad approcciarsi a un certo tipo di musica. La musica diventa qualcosa di ancestrale, ipnotico, rituale. Il bello di Isole che parlano è che diversi mondi musicali e artistici si incontrano, dialogano tra loro e mantengono la loro identità. Ci tengo a ribadire che nel mondo globalizzato è fondamentale avere delle identità e non pensare che il punto di incontro debba essere l'obbligo di annacquare o svilire i concetti musicali di provenienza. È bello vedere nella stessa sera il pop norvegese più raffinato che si confronta con il rock metal e con la musica elettronica cercando espressioni artistiche che emozionino il pubblico, senza confini e senza barriere.


Foto di Patrizia Cau

C’è qualche artista in particolare che vuoi consigliare ai lettori di Underground X?

Pixvae, un progetto che mescola la cumbia colombiana con l'hard rock; gli United Vibration e The Comet Is Coming, due band londinesi che sono un bel meltin pot di vari generi musicali, un mix di jazz fusion, psichedelia e techno.  Nel jazz italiano mi piace molto quello che sta producendo l'etichetta Auand Records che lavora con tantissimi giovani musicisti... poi io sono un fanatico del flamenco, come ho detto, e consiglio assolutamente La Leyenda del Tiempo di Camarón de la Isla, un album fondamentale che ha segnato la storia del flamenco, anche perché lo ha messo in comunicazione con il progressive, ha una freschezza rivoluzionaria. Per me questo rappresenta un punto di riferimento ci ciò che sarebbe bello fare con la musica sarda, cioè metterla in contatto con altri generi musicali e attualizzarla.

Grazie mille, Paolo!

Grazie mille a voi, di cuore.



Marcella e Joveline

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