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di Paolo Lubinu

Si è conclusa sabato scorso la 21esima edizione di Abbabula, festival di musica e parole d’autore concepito e organizzato dalle Ragazze Terribili. Sono state due settimane impegnative e gratificanti per il pubblico e per gli artisti che si sono esibiti in una dimensione emotiva e scenica full immersion.
Si è partiti alla grande con Macbettu, l’audace rivisitazione del Macbeth di Shakespeare diretta da Alessandro Serra, dove gli attori – tutti uomini come da tradizione elisabettiana – hanno recitato in sardo senza cedere mai il passo al folklore o all’autoesotismo: i suoni di uomo e di animale, le maschere e i costumi ancora vivi e riconoscibili hanno reso l’opera credibile e unica nel suo tentativo di rappresentazione dell’arcaico. A parte la possibilità di leggere le traduzioni in italiano e in inglese (perché non bisogna dimenticare che lo spettacolo ha fatto il giro del mondo con qualcosa come 140 repliche) il pubblico ha potuto più volte – e a intervalli regolari o comunque ben studiati – godere di pause linguistiche dove gli attori diventavano performer, streghe, gobbe umane e oggetti scenici suonanti, e sempre con una buona dose di autoironia difficile da raccontare. Sta di fatto che il teatro (pieno) ha reagito con una bella e progressiva standing ovation.



Il 30 aprile la fiaccola della scena è passata a mister Manuel Agnelli (con il suo An evening with...) e Rodrigo D’Erasmo. Bisogna ammettere che dalla tana delle tigri underground temevamo qualche scivolata di stampo televisivo, autocelebrazioni varie ed eventuali, invece niente: è stato uno spettacolone coi fiocchi dove Manuel si è raccontato con umiltà, leggerezza e  tanta ironia; temevamo pure che si parlasse troppo, invece due ore e mezzo di spettacolo sono passate così, pluf... Sì è partiti dai classici degli Afterhours per arrivare a quelli forse più popolari o radiofonici, ma niente paraculate: l’accompagnamento di Rodrigo D’Erasmo (che dire accompagnamento è davvero riduttivo, meglio “trascinamento” semmai) ha fatto una signora differenza, che i violinisti e i musicisti in sala pensavano a voce alta “e che cazz... come fa questo a suonare così?”. Maestria senza virtuosismi: tutto stile e personalità, chiodo, martello e violino elettrico. Wow. Bellissime le cover, c’è passato Lou Reed, Kurt Cobain, i Joy Division, Bruce Springsteen e Nick Drake preceduti sempre da un racconto figo, ma più che altro vero, che reggeva i brani o che in qualche modo spiegava cosa ci azzeccassero quei pezzi con lo spettacolo: quindi è venuto fuori che c’entravano le scimmie urlanti che durante un viaggio in India avevano invaso l’alloggio di Agnelli con tentata aggressione e fuga tipo Fuga da Alcatraz; è venuto fuori che il sesso nel nord Europa rispetto all’Italia (che cosa strana!) era più facile ai tempi di Agnelli adolescente, ma tutto sommato il sesso non è necessariamente una cosa allegra, e quindi vai col pezzo di Lou Reed, The Bed. E anche qui, a fine spettacolo, il pubblico ha reagito con una standing ovation, immediata, catapultata. Terminale globale.



Il 2 maggio è toccato a Paolo Angeli reggere la scena con la sua chitarra modificata, trasformata, arricchita, atomica. Paolo ha preso i Radiohead e li ha destrutturati, disintegrati e poi rimessi insieme in una soluzione nuova, dove i fan accaniti della band inglese hanno potuto riconoscere qua e là le tessere del mosaico sonoro, ma nella consapevolezza di avere a che fare con un’opera totalmente altra più che alterata. Per i maniaci della chitarra si è trattato di un trip fortunato, unico, un cartoncino d’oro da tenere sempre in tasca: perché Paolo suona la chitarra con le mani, con le dita, con l’archetto, la percuote, la suona con i piedi (cioè controlla alcune corde veramente attraverso i piedi), aziona eliche inaudite. Insomma una sperimentazione continua che però trova nella tradizione sarda un centro di riferimento o forse una deriva o forse un ricongiungimento dopo il tradimento del maestro (di questa faccenda del tradimento ne ha parlato lo stesso Paolo, con ironia ovviamente, ma anche come fatto necessario per la ricerca e l’evoluzione musicale). Il momento clou della serata, almeno sul piano emotivo, è stato quando il singolare chitarrista ha tirato fuori le sue conoscenze del canto gallurese e... wow. Doppio wow. Silenzio assoluto in sala e cartoncino d’oro consumato a metà. E come succede spesso in questi casi il pubblico ne voleva ancora... quindi bis e contro bis. Applausi infiniti.

La serata del 2 maggio è stata aperta con il debutto dei Nunc, un duo elettro industrial noise sperimentale formato da Manuel Attanasio (Mowman) alla voce, macchinette e bisturi elettronici, e da Peppino Anfossi (Nasodoble e Figli di Iubal) al violino elettrico. Bella storia. I due musicisti hanno presentato quattro brani, tutti molto differenti tra loro, dove è emerso una sorta di crossover noise industrial techno (beh, techno in senso lato) in cui da una parte si cerca di eludere o forse distruggere la forma canzone e dall’altra di rievocarla, almeno in alcuni episodi. Ottima la risposta del pubblico e tanta la curiosità per una prossima, ci si augura imminente, uscita discografica.


Paolo Angeli insieme ai Nunc, Peppino Anfossi e Manuel Attanasio

Il giorno dopo al teatro Verdi c’è stato il concertone di Cristina Donà e Ginevra di Marco; due voci e caratteri così differenti eppure complementari: la bionda e la bruna, la cantante folk e la poetessa dark. Il repertorio in abbondanza classico è stato ripercorso in una chiave spesso nuova e suggestiva in feat e singolarmente, a seconda del brano e del coinvolgimento emotivo e personale delle due artiste. Il pubblico ha più volte accompagnato e sostenuto la super band (Francesco Magnelli al piano, Andrea Salvadori alla chitarra-tzouras e loop, Saverio Lanza alla chitarra, Luca Ragazzo alla batteria) con dei cori che volevano essere struggenti, perché nonostante l’aria e la provenienza di un certo Consorzio di Suonatori Indipendenti l’ossigeno era più tenero, calmo, abbastanza lontano dal rock, a parte alcune eccezioni. Ma in questa tenerezza, chiamiamola così, c’era della confidenza dove gli scambi tra il pubblico e le artiste sul palco ricordavano parecchio situazioni tra vecchi amici leggermente ubriachi: “Cristi’ fai quella... Cristi’, questo pezzo me lo devi da quella volta che...” e partiva il ritornello del pezzo. Figata. Tra l’altro proprio quella sera erano arrivati i CD frutto di questa collaborazione, prodotti attraverso un’operazione – si suppone faticosa – di crowdfunding. Davvero una cosa tra amici, in tutti i sensi. Ed è finita come finisce tra amici, con le due cantanti quasi fuori dal palco, senza microfono, che cantavano insieme al pubblico. Oh yes. Todo cambia. Emozione.


foto di Alessandro Santoru

Il 4 maggio sempre al Verdi c’è stato “Fuochi sulla collina”, lo spettacolo omaggio a Ivan Graziani, dove il grande cantautore rock è stato raccontato e rievocato da Andrea Scanzi e Filippo Graziani, figlio di Ivan. L’emozione era grande perché, a parte i luoghi comuni, in più momenti sembrava di sentire davvero la voce di Ivan: sarà una questione di DNA, ma Filippo ha cantato proprio come suo padre senza scadere mai nella mera imitazione, perciò sì è creata una buona aria passando dai classici più noti a quelli più periferici e forse più identificativi, almeno a detta di Filippo, della personalità di Graziani. Sul palco, tra le braccia di Filippo, la chitarra elettrica con cui suo padre aveva abbozzato, concepito e composto brani memorabili che ora venivano fuori lisci come il vino rosso che sempre sul palco scorreva con un discreto flusso. Interessante la chiave di lettura e il lavoro di narrazione di Andrea Scanzi sulla vita artistica di Ivan: chicche biografiche miscelate a situazioni di confine del panorama musicale italiano degli anni ‘70, ’80 e ’90, dove i cantautori non impegnati politicamente avevano vita dura, figurarsi se il cantautorato lo si faceva in chiave rock. E insomma si è andati avanti così, tra un racconto spesso ironico e una canzone di Ivan (quasi con la sua voce!), tra un bicchiere di vino e bizzarri accordi blues e si è finito col cantare tutti una canzone triste triste triste, triste triste triste, triste come...  Applausi scroscianti.



Il 9 maggio location a cielo aperto per Carmelo Pipitone e LEF (Lorenzo Esposito Fornasari): il chitarrista fondatore dei Marta sui Tubi e degli O.R.K, presente anche nei recenti Dunk, ha presentato il suo disco da solista, dove finalmente si è esposto anche come cantante, e c’è da dire che Pipitone ha un vocione niente male, per quanto resti sempre ancorato alla sua chitarra con uno stile aperto, personale e sperimentale. Cose per maniaci della chitarra appunto; adorabile, imprescindibile chitarra. C’è spazio per il progressive, il folk e il rock indie e succede che LEF accanto a Carmelo non è un semplice valore aggiunto ma il lato buono (nel senso proprio bonario o forse pop dello spettacolo), la zampa sinistra che dà spinta e sicurezza alla zampa destra, le altre due zampe, come dicevamo, erano impegnate alla chitarra e ai synth e tastiere per quanto riguarda LEF, quindi erano ben accette e ben incastonate le incursioni dei brani degli O.R.K. Bel concerto e bel progetto davvero.



Sempre il 9 maggio, poco prima del tramonto, ad aprire la serata c’è stato lo spettacolo teatrale di Claudia Crabuzza e Francesca Ventriglia: “Difesa di Violeta Parra”. Claudia è cantautrice solista e voce dei Chichimeca e Francesca è attrice e coautrice teatrale di molte produzioni della compagnia Meridiano Zero. Le due artiste hanno messo in scena, ognuna con i propri talenti, un racconto della vita e dell’animo della poetessa, cantautrice e pittrice cilena, Violeta Parra appunto, dove molti brani originali sono stati tradotti e interpretati in italiano con ardore e delicatezza: canto struggente con guitalele di Claudia da una parte e interpretazioni, letture bisbigli e performance teatrali di Francesca dall’altra. Gran bella reazione del pubblico. Emozione sincera e palpabile.



A chiudere la serata del 9 maggio il semidebutto di Lisandru aka Alessandro Sanna, vincitore del piccolo festival del cantautore “A squarciagola”. Lisandru è un polistrumentista, rumorista, costruttore di suoni e di aggeggi elettronici, chitarrista, bassista e fedele militante in band di tutto rispetto come Ozelo, Ariabascia, Iskeed e Monoke. Di recente si è proposto come cantautore e si sta facendo notare dalla critica e dal pubblico di appassionati, fatto assai notevole visto che ancora deve uscire il suo primo disco. Sul palco del 9 maggio l’emozione era tanta e la chiave proposta era decisamente più rock rispetto all’esordio a squarciagola, totalmente acustico. C’erano almeno due anime che combattevano su quel palco, con una certa energia e forse un po’ di sofferenza: quella del rocker appunto e quella del cantautore novello; chi vincerà? Chissà. Grande curiosità per il debutto discografico.

Il giorno dopo stessa location a cielo aperto per il concertone dei Diaframma; la band di Federico Fiumani sorprende sempre per l’energia e la rinnovata volontà nichilst dark (si fa per dire, eh) che si accende sul palco, non è un luogo comune: c’erano le sedie lì davanti, perché così è Palazzo Ducale e così è un po’ l’anima del Festival (musica e parole d’autore, appunto), ma quando in scena c’è un signor punk prima o poi (ma è stato davvero più prima che poi) quelle sedie spariscono. E così è successo. E siccome le sedie non potevano sparire davvero, ecco la cara vecchia e allegra calca punkettona davanti al palco, punkettoni ben vestiti perlopiù, e perlopiù, ma appena appena, brizzolati. D’altronde il brizzolato per eccellenza era sul palco a spaccare tutto, Federico Fiumani, il poeta punk dark wave, trasfigurazione di David Bowie, stesso fisico, stessa sigaretta arrogante, stessa genuina boria. Inutile dire che il repertorio classico l’ha fatta da padrone, ma è normale, è così che funziona nell’ambiente, i veri punk non invecchiano mai. O si illudono sempre. Grande calore e gioia del pubblico.



Sempre il 10 maggio ad aprire la serata c’è stato il debutto live di OK BA’, duo (ma loro si arrabbiano se li si chiama così) formato da Pasquale Demis Posadinu (già solista e in precedenza Primochef del Cosmo) e Alberto Atzori (giovane musicista, cantante e talentuoso produttore). Si tratta di un progetto nuovo, trasversale in un certo senso rispetto alle culture di provenienza dei due musicisti; Pasquale lo definisce “la cosa più pop che abbia mai fatto” e a quanto pare questa dimensione lo mette a suo agio e in pericolo allo stesso tempo. Di sicuro si tratta di una dimensione capace di produrre emozioni che arrivano dritte dritte alla ghiandola pineale (ghiandola che probabilmente cambia colore a seconda delle circostanze); il 10 maggio di sicuro era blu. D’altronde questa dimensione di familiarità da una parte e di lontana precarietà dall’altra la si intravvede già nel moniker del progetto: infatti OK BA’ è la parolina magica con cui la figlia di Pasquale riesce a ottenere praticamente tutto da lui. Chissà questa volta cosa gli aveva chiesto. Di sicuro almeno una piccola grande emozione.

Sabato 11 maggio è stata la giornata di chiusura del festival: cambio location, tutti al Quod stavolta con Canarie. Si tratta di un duo di recente formazione (Paola Mirabella alla voce e tastiere e Andrea Puccini alla chitarra e voce) che ha appena pubblicato il disco d’esordio “Tristi Tropici”. Per l’occasione i due musicisti erano accompagnati da un signor bassista e un signor batterista, molto raffinati e creativi anche nella scelta e nell’utilizzo dei propri set, dove per quanto lo spirito e l’impianto generale fosse sostanzialmente pop e lounge (volendo british) è stato interessante osservare la disinvoltura con cui si passava da un uso tradizionale degli strumenti a un utilizzo decisamente sperimentale, per non dire audace. Il pubblico ha gradito parecchio e la pioggerella che all’improvviso si è manifestata tipo un Manitù pigro ha spinto un po’ verso le danze e le birrine d’ordinanza, ma in chiusura del festival era doveroso essere un po’ ubriachi, d’altronde si era a cielo coperto stavolta, in tutti i sensi.

E sia, anche la 21esima si Abbabula è andata. Ed è andata più che bene.  Dunque salute. E alla prossima.

Paolo Lubinu




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